Più di 10 anni di consulenza SEO. Centinaia di siti analizzati. E solo ora Google ammette quello che sospettavamo da sempre: le pagine di accesso possono sabotare completamente le tue performance sui motori di ricerca.
La notizia è arrivata come un fulmine a ciel sereno durante l’ultimo episodio di “Search Off the Record”. John Mueller e Martin Splitt hanno finalmente messo nero su bianco quello che molti di noi avevano intuito lavorando sui progetti più complessi. Ma andiamo con ordine.
Il problema dei contenuti duplicati generici
Ricordo ancora il caso di un cliente e-commerce dell’anno scorso. Avevano migliaia di prodotti, ognuno con la sua pagina dedicata. Tutto perfetto, almeno in teoria. Il problema? Ogni volta che un utente non loggato tentava di accedere a una sezione riservata, il sistema lo rimandava alla stessa identica pagina di login.
Risultato? Google vedeva migliaia di URL diversi che mostravano tutti lo stesso modulo di accesso. Per l’algoritmo erano contenuti duplicati belli e buoni.
Mueller lo ha spiegato così nel podcast:
“se hai una pagina di accesso molto generica, vedremo tutti questi URL che mostrano quella pagina di accesso come duplicati… Li uniremo come duplicati e ci concentreremo sull’indicizzazione della pagina di accesso.”
La pagina di accesso diventa protagonista indesiderata
Il meccanismo è perverso, se ci pensate. Immaginate di cercare il brand di un’azienda su Google e di trovare, al primo posto, non le informazioni utili sui loro servizi, ma una spoglia pagina con “email” e “password”. È esattamente quello che succede quando Google decide che la pagina di login è la versione “canonica” del vostro contenuto.
E qui arriva la parte che fa più male: secondo Mueller, questo problema affligge persino i servizi interni di Google. Search Console stesso ha sofferto di questi errori in passato. Se Google non riesce a gestire le proprie pagine di accesso, figuriamoci noi.
La trappola del robots.txt
“Beh, allora nascondo tutto nel robots.txt”, penserete. Sbagliato. Grosso errore.
Bloccando le aree sensibili nel file robots.txt, gli URL potrebbero comunque comparire nei risultati di ricerca, senza snippet ma ben visibili. E se quegli URL contengono nomi utente o indirizzi email? Disastro completo.
Mueller ha detto:
“se qualcuno digita una query sul tuo sito… Google e altri motori di ricerca potrebbero dire: ‘oh, conosco tutti questi URL. Non ho informazioni su cosa ci sia, ma sentiti libero di provarli'”.
Tradotto: Google potrebbe esporre URL privati senza nemmeno sapere cosa contengono. Una violazione della privacy completa.
Le soluzioni che funzionano davvero (secondo Google)
Dopo aver seminato il panico, Mueller ha anche fornito qualche rimedio concreto.
Vediamo cosa fare invece di continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto.
Strategia 1: il tag noindex sui contenuti privati
Se il contenuto deve rimanere privato, usate un noindex sugli endpoint privati. Non caricate il testo privato nella pagina per poi nasconderlo con JavaScript – screen reader e crawler potrebbero comunque accedervi.
Strategia 2: reindirizzamenti intelligenti verso altre pagine
Search Console ha risolto il problema interno reindirizzando i visitatori disconnessi verso una pagina di marketing con un chiaro link di accesso. Questo ha fornito a Google un contesto indicizzabile invece del solito “inserisci email e password”.
Strategia 3: dati strutturati paywall per i contenuti a accesso limitato
Se volete che le pagine con restrizioni vengano indicizzate, utilizzate i dati strutturati paywall. Questo permette a Google di recuperare l’intero contenuto, pur sapendo che i visitatori normali incontreranno un muro di accesso.
Mueller ha specificato che questi dati strutturati non sono riservati solo ai contenuti a pagamento:
“non deve necessariamente esserci qualcosa dietro un pagamento trasparente. Può essere semplicemente un login o qualche altro meccanismo che limita la visibilità del contenuto.”
Il test della verità: naviga in incognito
Ecco un trucchetto che uso sempre con i miei clienti. Aprite una finestra di navigazione in incognito, poi cercate il vostro brand su Google. Cliccate sui primi risultati.
Se vi ritrovate su pagine di accesso spoglie e prive di contesto, avete un problema. Grosso.
Potete anche cercare pattern di URL noti delle vostre aree account per vedere cosa Google sta effettivamente mostrando. Spesso i risultati sono… illuminanti, diciamo così.
Aggiungete contesto alle esperienze di login
Una delle soluzioni più semplici? Aggiungete contesto alle vostre pagine di accesso. Invece di un freddo “login/password”, inserite una breve descrizione del prodotto o della sezione che l’utente sta cercando di raggiungere.
Come suggeriva Mueller: “inserisci alcune informazioni sul tuo servizio nella pagina di accesso.”
Un paragrafo che spiega cosa c’è dietro quella porta chiusa può fare la differenza tra una pagina inutile e un contenuto che Google riesce a comprendere e posizionare correttamente.
L’impatto sui business moderni
Con sempre più aziende che adottano modelli di abbonamento ed esperienze limitate, la progettazione delle pagine di accesso diventa importante per la SEO.
Le piccole modifiche alle pagine di login e ai reindirizzamenti possono impedire raggruppamenti duplicati e migliorare drasticamente l’aspetto del vostro sito nei risultati di ricerca.
Una riflessione finale (amara)
La cosa che colpisce di più di questa storia non è tanto il problema tecnico in sé.
È la normalità con cui Google ha ammesso che anche i loro servizi interni soffrono di queste problematiche.
Se un problema è così diffuso da riguardare persino i servizi di Mountain View, perché non è mai stato affrontato in modo strutturale? È una limitazione tecnica insormontabile o una scelta strategica deliberata?
Il dubbio rimane. Un sistema di ricerca che penalizza le “porte chiuse” favorisce inevitabilmente i contenuti aperti e pubblici. Un meccanismo che, guarda caso, si sposa alla perfezione con il modello di business di Google: indicizzare quante più informazioni possibili.
Ammettere che si tratta di una “difficoltà” sembra quasi un modo elegante per dire che, tutto sommato, le cose vanno bene così.