Vuoi costruire un brand da 0? Ottimo.
Settimane fa mi è capitato di recente di assistere a una presentazione dove un CEO spiegava orgoglioso la nuova strategia di brand.
Slide bellissime, colori coordinati, tagline accattivante. Poi alla fine qualcuno ha chiesto: “Bello, ma chi siete voi come azienda?” Il silenzio che è seguito parlava più di mille presentazioni.
Costruire un brand partendo dal logo equivale a costruire una casa iniziando dal tetto. Tecnicamente si può fare, ma prima o poi crolla tutto. E il bello è che la maggior parte delle aziende fa esattamente questo errore.
La terapia del brand: il primo step che tutti saltano
Quando parliamo di costruire un brand da zero, c’è un passaggio che spaventa tutti: la terapia del brand.
Sì, proprio come quella psicologica, ma per le aziende.
La domanda che terrorizza ogni imprenditore è: “Chi siete voi davvero?”
Non sto parlando di mission statement scritte dal team marketing. Sto parlando di identità vera, profonda, quella che ti fa svegliare la mattina. Chi siete? Dove volete essere? Come volete essere visti? Come vi vedono ora? E soprattutto – ecco la parte che fa paura – cosa vi spaventa di più?
Perché qui arriva il momento critico: la paura della nicchia. “Se ci specializziamo troppo, perdiamo clienti.” È il mantra che sento ripetere in ogni consulenza. Ma è esattamente il contrario.
È come dire: “se scelgo una persona da sposare, perdo tutte le altre possibilità di appuntamenti su Tinder.” Tecnicamente vero, ma completamente stupido come ragionamento.
L’identità del brand non è un optional. È il fondamento su cui costruisci tutto il resto. Senza quella, stai costruendo sulla sabbia.
Dal chi sei al per chi sei: il processo a cascata
Una volta che hai capito chi sei – e sottolineo DOPO che l’hai capito, non prima – arriva naturale la domanda successiva: per chi stai costruendo questo brand?
È matematica pura: chi sei determina automaticamente chi ti dovrebbe scegliere. Non è che puoi essere un brand premium e poi sperare di attrarre clienti che cercano solo il prezzo più basso. O essere un brand innovativo e poi accontentare chi vuole sempre “come si è sempre fatto.”
Pensa a Tesla. Non hanno mai cercato di piacere a tutti gli automobilisti. Hanno definito chiaramente chi erano (un’azienda che vuole accelerare la transizione verso l’energia sostenibile) e automaticamente hanno saputo per chi erano: early adopters tecnologici che credevano in quella visione.
Il bello del costruire un personal branding o aziendale che sia, è che quando sai chi sei, il tuo pubblico quasi si auto-seleziona.
I problemi veri vs i pain points di marketing
Ecco dove la maggior parte delle aziende sbaglia tutto.
Leggono “pain points” sui libri di marketing e pensano di aver capito i loro clienti.
Ma i problemi veri non sono “unique selling propositions” o “pain points.” Sono quello che succede nella vita delle persone quando interagiscono con la tua categoria di prodotto.
Esempio: se vendi automobili elettriche, il problema non è “la gente vuole inquinare meno.” Il problema è che sono le 6 del mattino, devono portare i figli a scuola, poi andare in ufficio, poi al supermercato, e nel frattempo si preoccupano di dove trovare una colonnina di ricarica che funzioni e che non li faccia arrivare in ritardo all’appuntamento delle 10.
Airbnb l’ha capito subito. Non hanno risolto il “pain point” di “trovare un posto dove dormire.” Hanno capito che i viaggiatori moderni volevano vivere come abitanti locali, non come turisti. Volevano storie da raccontare, non solo un letto per la notte.
Come ti posizioni senza sembrare un venditore
Quando hai capito chi sei, per chi sei, e cosa succede davvero nella vita di queste persone, allora puoi iniziare a pensare al posizionamento.
E qui la domanda diventa: come risolvi quei problemi reali rimanendo fedele a chi sei?
Non devi inventare features miracolose o copiare quello che fa la concorrenza. Devi mostrare autenticità.
Creare un brand di successo significa trovare l’intersezione perfetta tra chi sei tu e come puoi rendere migliore la vita del tuo target. Senza forzature, senza stretching impossibili, senza promesse che non puoi mantenere.
Spotify non ha mai promesso di “vendere più musica.” Ha promesso di rendere la scoperta musicale più personale e accessibile. Differenza enorme.
Il messaging viene ultimo (non primo)
Adesso arriva la parte che tutti aspettano con ansia: cosa diciamo? Come lo comunichiamo? Qual è il nostro tone of voice?
Ecco la verità che nessuno vuole sentire: il messaging viene ALLA FINE. Non all’inizio.
Se hai fatto bene tutto il lavoro precedente – identità, target, contesto di vita, posizionamento – il messaging diventa quasi automatico. Non devi “inventarlo”, devi solo esprimere una verità che già conosci.
E soprattutto: non cercare di essere perfetto al primo colpo. Il messaging si raffina attraverso iterazioni, feedback reali, conversazioni vere con i clienti.
L’ultimo brand che ho seguito ha cambiato il payoff principale quattro volte prima di trovare quello giusto. Non perché i primi erano sbagliati – erano incompleti. Come un’opera d’arte che diventa più definita a ogni pennellata.
L’edificio del brand: fondamenta vs tetto
Il problema di come la maggior parte delle aziende affronta il branding è che pensano sia un processo lineare. Step 1, step 2, step 3, fatto.
Non funziona così. Costruire un brand è come costruire un palazzo. Le fondamenta sono l’identità. Poi costruisci il primo piano (il target), poi il secondo (i problemi reali), poi il terzo (il posizionamento), poi il quarto (il messaging), e infine il tetto (il refinement).
Il tetto è quello che tutti vedono dall’elicottero – i colori, il logo, le campagne. Ma senza le fondamenta, tutto crolla.
Il paradosso è che tutti vogliono saltare direttamente al tetto perché è l’unica cosa visibile. Ma se le fondamenta non sono solide, quella bellezza dura sei mesi.
Il problema SaaS: dal software all’utilità
Per chi opera nel B2B, soprattutto nel SaaS, c’è un rischio specifico: diventare una “utility.”
“Siamo solo un tool.” Quante volte l’ho sentito. Il problema dell’essere solo un’utilità è che non c’è nessuna connessione emotiva. Appena arriva qualcuno con più funzioni o prezzo migliore, i clienti scappano. Zero loyalty.
Prendiamo un software di editing video. Potrebbe posizionarsi come “il tool più potente per l’editing.” Oppure potrebbe dire: “aiutiamo a creare contenuti professionali senza avere un setup da Hollywood.”
La differenza? Nel secondo caso sai esattamente per chi è fatto e perché dovrebbe interessarti.
Canva non si è mai posizionato come “un altro tool di design grafico.” Si è posizionato come “design democratico” – permettere a chiunque di creare cose belle senza essere un designer professionista.
Ecco perché quando esce un nuovo tool di design, molte persone rimangono fedeli a Canva. Perché non è solo un software – è un’identità.
Quanto costa costruire un brand (la verità sui numeri)
Arriviamo alla domanda che molti fanno: quanto costa costruire un brand?
La risposta dipende da tante variabili, ma non è quello il punto. Il vero costo non è quello dell’agenzia o del consulente. Il vero costo è il tempo che ci metti a fare onestamente il lavoro di introspezione aziendale.
A chi rivolgersi per creare un brand? Puoi spendere 10.000 euro con un freelance brillante o 200.000 con un’agenzia internazionale. Ma se non hai fatto i compiti a casa sull’identità, anche l’agenzia più costosa del mondo produrrà risultati mediocri.
Ho visto startup che hanno speso cifre folli per rebrand completi e dopo un anno erano punto e a capo. Perché? Avevano saltato la fase uno: capire chi erano davvero.
La loyalty che nasce dalla connessione
Quando costruisci un brand con questo metodo – identità, target, contesto, posizionamento, messaging, refinement – succede una cosa magica: la loyalty.
Non quella finta dei programmi punti. Quella vera, emotiva, quella che fa dire ai clienti “io uso solo questo brand” anche quando ci sono alternative migliori o più economiche.
Apple potrebbe vendere scarpe domani e i suoi fan le comprerebbero. Non perché sono necessariamente le migliori scarpe del mondo, ma perché sanno chi è Apple e si riconoscono in quella identità.
Burberry può permettersi di dire ai clienti “non comprate la nostra giacca se non ne avete davvero bisogno” perché la loro identità è così forte che quella trasparenza rinforza la fiducia invece di diminuire le vendite.
Gli errori che fanno tutti quando costruiscono un brand da zero
- Il primo errore: saltare la terapia del brand. “Noi sappiamo già chi siamo.” No, probabilmente non lo sapete. O meglio, lo sapete a livello istintivo ma non l’avete mai verbalizzato in modo chiaro.
- Il secondo errore: avere paura della nicchia. “Se ci specializziamo perdiamo opportunità.” Il contrario: se non vi specializzate, non interessate a nessuno davvero.
- Il terzo errore: copiare quello che funziona per altri. Il brand di successo del vostro competitor funziona per loro, per la loro storia, per il loro pubblico. Voi avete bisogno del VOSTRO brand.
- Il quarto errore: partire dal messaging. “Prima scriviamo il payoff, poi vediamo chi siamo.” È come decidere cosa dire prima di sapere a chi stai parlando.
La verità sui brand che durano decenni
I brand che sopravvivono alle mode, alle crisi, ai cambiamenti tecnologici, hanno una cosa in comune: conoscono la loro identità e non la tradiscono mai.
Nike potrebbe vendere automobili domani e non ci sembrerebbe strano. Perché sappiamo chi sono: un brand che crede che tutti possano superare i propri limiti attraverso lo sport.
Disney potrebbe aprire una scuola e non saremmo sorpresi. Hanno appena creato una crociera tra l’altro 😀 Alla fine sappiamo chi sono: un’azienda che crede nella magia dell’immaginazione per tutte le età.
Costruire un brand da zero significa creare questa coerenza che va oltre i prodotti, oltre le campagne, oltre le tendenze del momento.
E questo tipo di consistenza non si improvvisa. Si costruisce mattone dopo mattone, partendo dalle fondamenta giuste.
Il processo che cambia tutto
Ricapitolando il framework completo per costruire un brand da zero:
- Identità del brand: chi siete davvero, cosa vi spaventa, dove volete andare.
- Target audience: chi è naturalmente attratto dalla vostra identità.
- Contesto di vita: cosa succede nella vita quotidiana del vostro target quando interagisce con la vostra categoria.
- Posizionamento: come risolvete i problemi reali rimanendo fedeli alla vostra identità.
- Key messaging: cosa è importante comunicare (senza ancora raffinare).
- Refinement: iterazioni continue basate su feedback reali.
È un processo che richiede tempo, onestà, e soprattutto il coraggio di fare scelte. Ma quando è fatto bene, dura decenni.
La prossima volta che qualcuno vi chiede “chi siete come brand?”, invece di parlare di colori e font, iniziate dalla vera domanda: “chi siamo noi, davvero?”
Il resto viene da sé. O almeno, diventa molto più chiaro.
I passaggi per costruire un brand da zero: i miei consigli finali
- Registra il dominio prima del nome aziendale: verifica la disponibilità del .com prima di innamorarti di un nome. Se nomebrand.com non è disponibile, cambia nome. I clienti cercheranno istintivamente il .com – se li mandi su nomebrand.eu perdono fiducia prima ancora di conoscerti. L’ho visto succedere centinaia di volte;
- Crea un “visual hammer” prima del logo: non pensare al logo come primo elemento, pensa a un simbolo distintivo che ti rappresenti. McDonald’s non è famoso per la M, ma per l’arco dorato che riconosci da 200 metri. Il tuo visual hammer deve essere così forte che anche senza nome la gente ti riconosce;
- Usa la tecnica del “category creation”: non essere “un altro consulente marketing” – sii “l’unico specialista in growth hacking per startup B2B sotto i 2 milioni di fatturato”. Se la categoria è affollata, inventane una nuova. Specifico batte sempre generico, anche quando il mercato sembra più piccolo;
- Applica la regola del “Golden Circle”: il 90% dei brand comunica cosa fa, il 10% di successo comunica perché lo fa. Inizia sempre dal WHY nelle comunicazioni. Non dire “vendiamo software” ma “crediamo che ogni imprenditore meriti strumenti semplici per far crescere il business”;
- Costruisci mappe percettive dei competitor: mappa i tuoi 5 competitor principali su due assi (prezzo/qualità, innovazione/tradizione) e trova lo spazio vuoto dove posizionarti. La maggior parte dei brand si ammassa al centro – tu vai negli angoli liberi, anche se sembrano più rischiosi;
- Implementa il “tone of voice documenting”: crea un documento di 2 pagine con esempi di come il tuo brand parla, cosa dice e cosa NON dice mai. Inserisci frasi tipo “Nike direbbe: Just Do It / Nike non direbbe mai: forse potresti provarci”. Condividilo con chiunque scriva per te;
- Usa analytics predittivi per il naming: prima di scegliere il nome, testalo con Google Trends, verifica le ricerche correlate, controlla se ha connotazioni negative in altre lingue. Ho visto brand spendere 50K in marketing per scoprire che il loro nome significava “stupido” in spagnolo;
- Applica la “customer data platform strategy”: non creare buyer personas generiche da corso di marketing. Usa dati reali da Google Analytics, social insights, survey clienti per costruire profili iperdettagliati. La differenza tra “uomo 35-45 anni” e “Marco, 38 anni, CEO startup, legge TechCrunch alle 7 di mattina” è abissale;
- Implementa il “brand coherence testing”: ogni touchpoint deve riflettere la stessa personalità. Testa facendo vedere elementi separati del brand (email, homepage, packaging) a persone che non ti conoscono. Se non riescono a dire “sono della stessa azienda”, hai un problema di coerenza;
- Sviluppa una “value proposition canvas”: non dire “offriamo qualità” – di’ “riduciamo del 40% il tempo che i CEO spendono in riunioni inutili”. Quantifica sempre il valore, rendilo misurabile e specifico. “Miglioriamo la produttività” è fuffa, “facciamo risparmiare 2 ore al giorno” è oro.
Se avete bisogno di una consulenza, non esitate a contattarmi.
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